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Rassegna legislativa

La tutela dell'identità di genere nell'ordinamento italiano e internazionale.

In questa sezione è possibile trovare una rassegna delle principali tutele nazionali e internazionali sul tema dell'identità di genere. Il tema trattato richiede l'utilizzo di un linguaggio tecnico a garanzia della correttezza di ciò che viene riportato.

Carta costituzionale (articoli 2, 3 e 32)
Il principio costituzionale di uguaglianza stabilisce che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 3, comma 1, Costituzione). Questo principio non cita dunque espressamente l’identità di genere o la condizione transgender, come del resto appare ragionevole, considerando che la Carta costituzionale è stata redatta negli anni ’40, quando non era sviluppata la consapevolezza sul tema. Tuttavia, non possono esservi dubbi circa la “forza” del principio di uguaglianza e della Costituzione nel suo insieme, quali strumenti a tutela della persona transgender. Ciò in primo luogo in nome del “principio personalista” che colloca al centro del “progetto costituzionale” la persona, le sue esigenze, i suoi diritti e le sue libertà. Affermare che «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2) significa infatti dare centralità alla persona a prescindere da qualsiasi condizione personale di cui sia portatrice. Peraltro, lo stesso principio di uguaglianza non elenca in via tassativa ed esclusiva le condizioni protette, tanto da chiudersi con una espressione – “condizioni personali e sociali” – che può intendersi a proteggere qualsiasi carattere personale. Lo stesso articolo inoltre assegna alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, comma 2), potendosi certamente invocare a tutela della condizione transgender. L’articolo 32  tutela la salute come fondamentale diritto di ogni cittadino e stabilisce che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per obbligo di legge.

Legge 14 aprile 1982, n. 164, «Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso»; Art. 31 D. Lgs. 150/2011
La Legge 14 aprile 1982, n. 164 (modificata nel 2011, nell’ambito della riforma dei riti del processo civile, con Decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150, «Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione», in particolare v. art. 31, «Delle controversie in materia di rettificazione di attribuzione di sesso», a sua volta modificato dai decreti attuativi della Legge Cirinnà, ossia dal Decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili» e dal D. Lgs. 164/2024) detta le disposizioni per la rettifica di attribuzione di genere.
Questa legge venne approvata con l’obiettivo prioritario di “regolarizzare” le questioni anagrafiche di quelle persone che si erano sottoposte all’intervento chirurgico all’estero senza possibilità di essere riconosciute nella nuova identità in Italia, e di consentire l’accesso all’intervento chirurgico nell’ambito della sanità pubblica, dunque senza spese. Ciò spiega il suo carattere forse sbrigativo nel trattare alcune questioni. Per quanto si trattasse di una legge all’epoca molto innovativa, consentendo la modifica del sesso anatomico e anagrafico, essa appare oggi lacunosa e bisognosa di aggiornamenti divenuti necessari dal continuo porsi di nuove istanze. Negli anni si è posto l’interrogativo su alcune espressioni non del tutto chiare. Ad esempio, la legge si riferisce alla necessaria autorizzazione del tribunale per l’intervento «Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico», sembrando ammettere che la chirurgia sia un passaggio solo eventuale (art. 31, co. 4, d. lgs. 150/2011). Non chiarisce inoltre cosa debba intendersi per «trattamento medico-chirurgico», ossia se possa essere sufficiente la semplice terapia ormonale e la modifica dei caratteri sessuali secondari. Se fino al 2015, i giudici per lo più intendevano come necessario l’intervento di modifica dei caratteri sessuali, successivamente hanno invece ammesso la non necessità, anche grazie a due pronunce della Corte costituzionale (221/2015) e della Corte di Cassazione (15138/2015).
Più di recente, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 143/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del D. Lgs. 150/2011 nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso. Pertanto, non è più necessaria un’autorizzazione agli interventi chirurgici da parte del Tribunale, laddove, nel procedimento di rettifica anagrafica, il giudice abbia ritenuto le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute sufficienti ai fini della rettifica del nome e del genere anagrafico.

Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n. 198, «Codice delle pari opportunità tra uomo e donna»
Pur trattandosi di un testo normativo finalizzato a contrastare le discriminazioni fra uomo e donna, va certamente interpretato come a tutela anche delle persone che subiscono una discriminazione in ragione del cambiamento di sesso e in generale in ragione dell’identità di genere, nel rispetto del diritto euro-unitario (vedi la sezione “Le tutele del diritto euro-unitario”). Si tratta peraltro dell’unico riferimento in materia di tutele antidiscriminatorie, posto che non esiste una disciplina chiara come invece per l’orientamento sessuale (decreto legislativo 216 del 2003) o per altre condizioni personali.

Legge 20 maggio 2016, n. 76, «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze», cd. “Legge Cirinnà”, art. 1, commi 26 e 27
«26. La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso».
«27. Alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso».
Nella cosiddetta “legge Cirinnà”, è stato previsto che con la modifica anagrafica del nome e del sesso, vi è lo scioglimento in caso di unione civile, mentre in presenza di un legame matrimoniale vi è l’automatica conversione in unione civile.

Legge 26 luglio 1975, n. 354, «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà», cosiddetto, Ordinamento penitenziario, in specie art. 1
«Art. 1, Trattamento e rieducazione: 1. Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale, razza, nazionalità, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose, e si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione».
Si tratta di una normativa recentemente modificata (2018) e assai innovativa che espressamente richiama l’identità di genere quale condizione che non può generare discriminazioni nella detenzione.

Decreto Legislativo 19 novembre 2007, n. 251, «Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta»
Questo decreto considera la condizione transgender come possibile motivo di richiesta e riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Art. 8, «Motivi di persecuzione», «1. Al fine del riconoscimento dello status di rifugiato, gli atti di persecuzione di cui all'articolo 7 o la mancanza di protezione contro tali atti devono essere riconducibili ai motivi, di seguito definiti: … d) «particolare gruppo sociale»: è quello costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune, che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l'identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, ovvero quello che possiede un’identità distinta nel Paese di origine, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante. In funzione della situazione nel Paese d’origine, un particolare gruppo sociale può essere individuato in base alla caratteristica comune dell'orientamento sessuale, fermo restando che tale orientamento non includa atti penalmente rilevanti ai sensi della legislazione italiana ai fini della determinazione dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale o dell’individuazione delle caratteristiche proprie di tale gruppo, si tiene debito conto delle considerazioni di genere, compresa l’identità di genere».

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, cd. Carta di Nizza (2000)

Gli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea  garantiscono il diritto alla dignità umana, alla vita e all’integrità della persona.
Gli articoli 6, 7 e 8  garantiscono il diritto alla libertà e alla sicurezza, al rispetto della vita privata e della vita familiare, e alla protezione dei dati personali.
L’articolo 14  riconosce il diritto all’istruzione.
Articolo 20 (Uguaglianza davanti alla legge):  «Tutte le persone sono uguali davanti alla legge».
Articolo 21 (Non discriminazione):  1. «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali».
L’articolo 35  riconosce il diritto alla protezione della salute.

Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (2007)

Articolo 10:  «Nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale».
Articolo 19  (ex articolo 13 del TCE): «1. Fatte salve le altre disposizioni dei trattati e nell’ambito delle competenze da essi conferite all’Unione, il Consiglio, deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale».

Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, «riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione)»
«La Corte di giustizia ha ritenuto che il campo d’applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne non possa essere limitato al divieto delle discriminazioni basate sul fatto che una persona appartenga all’uno o all’altro sesso. Tale principio, considerato il suo scopo e data la natura dei diritti che è inteso a salvaguardare, si applica anche alle discriminazioni derivanti da un cambiamento di sesso» (Direttiva 2006/54/CE; Considerando 3). Questo atto è stato recepito nel cosiddetto Codice per le pari opportunità, ossia la normativa di riferimento per il contrasto alle discriminazioni tra uomo e donna (vedi sopra). Per quanto non si riferisca espressamente alla condizione transgender, si tratta di un testo molto importante poiché ha raccolto le indicazioni della Corte di Giustizia che, in alcune pronunce, aveva riconosciuto che le tutele a garanzia delle discriminazioni fra uomo e donna (ossia le tutele allora fissate dalle Direttive 76/207 e 2002/73, poi “raccolte” dalla Direttiva 2006/54) si estendevano anche verso chi fosse stato discriminato in ragione del cambiamento di sesso (C-13/94, P. v. S. and Cornwall County Council [1996]; C-117/01, K.B. v National Health Service Pensions Agency, Secretary of State for Health [2004]; C-423/04, Richards v. Secretary of State for Work and Pensions [2006]). Proprio raccogliendo gli spunti di queste decisioni, l’Unione Europea ha così dichiarato che il principio della parità di trattamento tra uomini e donne non può essere limitato al divieto delle discriminazioni basate sul fatto che una persona appartenga all’uno o all’altro sesso, ma deve applicarsi anche alle discriminazioni che derivano da un cambiamento di sesso (Direttiva 2006/54/CE; Considerando 3). Se pure questa disposizione può essere criticata, per molte ragioni, ad esempio perché contenuta in una parte della Direttiva non vincolante per gli Stati, poiché limiterebbe le tutele a chi abbia cambiato sesso e non a chi vorrebbe cambiarlo o lo sta cambiando (“discriminazioni derivanti da un cambiamento di sesso”), e ancora perché sembra dare per scontato che i sessi sono due e che si possa soltanto passare dall’uno all’altro (“all’uno o all’altro sesso”), è però certa la sua importanza. Questa formulazione determina infatti un ampliamento verso le persone transgender delle tutele previste contro le discriminazioni in ragione del sesso o del genere, come peraltro i giudici hanno anche iniziato a riconoscere in Italia, aspetto certamente fondamentale non essendo l’identità di genere espressamente tutelata dal diritto dell’Unione Europea.

Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, cosiddetta CEDU (1950) Articolo 14, «Divieto di discriminazione»
«Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione». Il quadro delle tutele richiama anche gli strumenti del Diritto internazionale.

Alcune Regioni hanno utilizzato il margine di manovra offerto dal riparto di competenze Stato-Regione, introducendo leggi di contrasto alle discriminazioni in ragione dell’identità di genere.

L.R. Toscana 15.11.2004, n. 63, «Norme contro le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere»
L.R. Liguria 10.11.2009, n. 52, «Norme contro le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere»
L.R. Marche 11.02.2010, n. 8, «Disposizioni contro le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere»
L.R. Piemonte, 23.3.2016, n. 5, «Norme di attuazione del divieto di ogni forma di discriminazione e della parità di trattamento nelle materie di competenza regionale»
Decreto del Presidente della Giunta regionale Piemonte 27.2.2017, n. 6/R. Regolamento regionale recante: «Attuazione della legge regionale 23 marzo 2016, n. 5 (Norme di attuazione del divieto di ogni forma di discriminazione e della parità di trattamento nelle materie di competenza regionale)»
L.R. Umbria 11.4.2017, n. 3, «Norme contro le discriminazioni e le violenze determinate dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere»
L.R. Emilia-Romagna 1.8.2019, n.15, «Legge regionale contro le discriminazioni e le violenze determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere»
L.R. Campania 7.8.2020, n.37, «Norme contro la violenza e le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere e modifiche alla legge regionale 16 febbraio 1977, n. 14 (Istituzione della Consulta regionale femminile)»
Delibera della Giunta regionale Toscana n.329 del 29.03.2021, «Accordo tra Regione Toscana e Pubbliche Amministrazioni della Regione Toscana aderenti alla Rete RE.A.DY. per la promozione della rete, per rafforzare la collaborazione tra le Pubbliche Amministrazioni locali e l'integrazione delle relative politiche a livello regionale»

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